Diverse - anche se di natura differente - sono le problematiche che interessano attualmente i terminalisti italiani in relazione alle tipologie merceologiche trattate, alla posizione geografica riguardante il mare di competenza (Adriatico e Tirreno, soprattutto) e alla posizione geografica, se le strutture sono basate a nord piuttosto che a sud del nostro Paese. È comunque indubbio che sui diversi traffici portuali nazionali abbiano inciso pesantemente - e continuano a farlo, chissà ancora quanto a lungo - le situazioni di conflitto in Medio Oriente e fra Russia e Ucraina. L’insicurezza delle rotte, l’incertezza dei trasporti e i cambiamenti del mercato sono stati e sono oggetto di continua analisi, aggiornate giorno per giorno, e indubbiamente le difficoltà maggiori sono state finora a carico dei porti adriatici, cioè quelli che maggiormente si rapportano economicamente con le aree interessate dai due scenari di guerra.
A questa situazione, che si può definire eccezionale, ancorché ormai diventata realtà quotidiana, sono da aggiungere alcuni problemi storici. Anzitutto l’evidenza che il sistema infrastrutturale è ormai compromesso da inefficienze che riguardano soprattutto le connessioni ferroviarie, ma a essere penalizzate sono anche quelle stradali, con pesanti ripercussioni a cascata su tutta la filiera logistica capaci di creare un forte gap a livello internazionale. Ancora, le semplificazioni burocratiche necessarie in situazioni d’emergenza, come quelle imposte da conflitti di questa portata, sono tuttora una chimera che difficilmente addiverrà a soluzione visto che si è registrata la proliferazione di enti di controllo con sovrapposizione di competenze ed incertezze di ruoli: fattori che indeboliscono vieppiù l’attività delle autorità del sistema portuale.
A questo si aggiunge la complessità e la quantità degli enti di vigilanza e controllo della operatività quotidiana, che continuano ad avere visioni normative ed orari fra loro diversi, avendo in comune solo l’ormai endemica “carenza di organico” che riduce le prestazioni e allunga i tempi. A rendere il tutto ancora più complesso si aggiungono i ritardi della cosiddetta riforma portuale (con i pregi e difetti ad essa connessi), gap che evidenzia quanto sia aleatorio operare e - soprattutto - investire in questo settore anche perché non esistono una visione ed una interpretazione omogenea delle disposizioni e persistono difformità anche nell’applicazione dei canoni concessori e nella interpretazione delle normative sul lavoro.
Importante novità è stata quella connessa al recente rinnovo del contratto nazionale di lavoro, intesa che ha comportato una grande responsabilità delle parti datoriali, ma che ha lasciato comunque inevase le richieste delle diverse rappresentanze riguardanti l’attivazione del fondo di pensionamento e l’inserimento di alcune figure professionali nei “lavori usuranti”. Inoltre, i percorsi di informatizzazione e digitalizzazione sono stati avviati solo in parte e si sconta in maniera decisa la difficoltà di reperire personale qualificato e motivato per tutte le mansioni portuali: grosso e costante problema, questo, che nonostante le pur ingenti risorse fin qui stanziate per la formazione è lungi dall’essere risolto. A tutto questo va aggiunta l’urgenza derivante dalla transizione ecologica che interessa i porti, sia direttamente con i processi di elettrificazione delle banchine che indirettamente per i costi e le incertezze sulle scelte future in materia di regole da adottare nei confronti dei vettori marittimi.
In estrema sintesi appare assolutamente evidente la necessità di una governance dei porti più efficiente, puntuale e coerente, oltre che la necessità di interventi destinati a potenziare le strutture con investimenti adeguati, così come sono auspicabili ulteriori risorse per rendere costanti e permanenti ambiti di primaria importanza come la formazione professionale e la sicurezza nel suo complesso. Tutto questo nella ferma convinzione che, pur nelle diverse formulazioni e ripartizioni dei ruoli di programmazione e gestione tra governo centrale e periferia, i porti debbano mantenere la loro funzione strategica di garanzia per l’interesse nazionale sotto il controllo e la proprietà del pubblico e la pluralità delle gestioni imprenditoriali private, pur osservando quanto stia destando preoccupazione la proliferazione del “gigantismo navale”, situazione che può provocare forti squilibri tra i porti e i Paesi. Così come dev’essere motivo di seria riflessione anche il fenomeno della concentrazione della gestione dei diversi servizi portuali e terminalistici che finiscono sotto il controllo di pochi ed enormi gruppi imprenditoriali: una tendenza che può destare allarme e comportare ripercussioni negative in termini di concorrenza e di mercato.
Roberto Rubboli, vicepresidente di Assologistica