15/02/2016

Giancarlo Russo, vice- presidente di Assologistica

Quale sia stato il livello dell’attenzione, dell’interesse delle nostre istituzioni per la portualità e la logistica meridionale è testimoniato dalla storia del porto di Taranto: siamo a un livello pressoché “zero". La rivista Euromerci ha seguito la lenta agonia di questo porto, nonostante fosse probabilmente l’unico scalo con tutte le carte in regola per affrontare con successo la crescente concorrenza nel mare Mediterraneo, che sta vedendo il rapido sviluppo, e in qualche caso anche travolgente, come Tanger Med, di porti nostri concorrenti. A Taranto, l’Italia ha abdicato. Abbiamo assistito a una farsa (difficile chiamarla in altro modo) che si è compiuta a Roma nell’aprile del 2012, quando, in pompa magna, governo, Regione Puglia, Ferrovie dello Stato, ecc., ecc. s’impegnarono a realizzare opere infrastrutturali in massimo due anni, onde evitare che le due grande compagnie armatoriali, Evergreen e Hutchinson, detentrici del 90% delle azioni della società che aveva in concessione il Taranto Container Terminal-TCT, abbandonassero il porto. Il risultato della farsa è che le due compagnie hanno messo a giugno 2015 la società in liquidazione e il 29 settembre hanno riconsegnato le aree del terminal all’Autorità portuale. Una sconfitta pesante per il nostro Paese, nel disinteresse generale. Parliamo di quanto sta accadendo a Taranto con Giancarlo Russo, vicepresidente di Assologistica ed ex manager del TCT. 
 

Come valuta quanto è accaduto e il “ritiro" dalla scena tarantina delle due tra  le più grandi compagnie armatoriali mondiali?
Il nostro Paese e, specialmente, il Mezzogiorno devono sempre più essere in grado di attrarre capitali e investimenti stranieri. Su questo siamo tutti d’accordo, allora come si può valutare una situazione che ha portato all’esatto contrario, alla perdita di due presenze estere così rilevanti? Prima di sottoscrivere a Roma l’accordo dell’aprile 2012, Evergreen aveva già annunciato l’incremento della portata delle sue navi, necessario per essere in grado di fronteggiare la sfida dei grandi armatori del trasporto marittimo. Non solo, ma da tempo aveva anche denunciato le forti difficoltà a lavorare sul terminal per una carente protezione offerta dalla diga foranea, per l’inadeguatezza dei fondali e delle banchine, per gli inefficienti collegamenti infrastrutturali, per l’esclusione dall’utilizzo di banchina e piazzali, già assegnati con l’atto concessorio, causa il permanere in loco di un terminal rinfuse. Nell’accordo romano, le istituzioni presero l’impegno di ammodernare la banchina di ormeggio, di fare i necessari dragaggi e la vasca di colmata, di adeguare l’area del terminal rinfuse, di realizzare la diga foranea. Impegni non mantenuti. Se a Taranto purtroppo non siamo stati in grado di soddisfare, nei tempi concordati, la domanda di un mercato già presente nel nostro territorio, non si possono demonizzare aziende che hanno portato in Italia e nel sud del Paese capitali esteri per creare sviluppo e che negli ultimi anni hanno ripianato perdite per 150 milioni di euro.
 

Cosa sta costando a Taranto questa situazione?
A parte il fatto, grave, che abbiamo regalato al porto del Pireo i nostri traffici e che, come sappiamo bene, quando si perdono traffici è sempre molto difficile recuperarli, un enorme costo la città lo sta pagando a livello sociale: 550 operai che lavoravano nel terminal sono in cassa integrazione per cessione dell’attività, mentre circa altri mille lavoratori, che facevano parte dell’indotto, hanno di fatto perso il lavoro.
 

Che fine hanno fatto i lavori decisi nel famoso accordo romano?
Sono partiti solo quelli per l’ammodernamento della banchina di ormeggio e, tra mille ostacoli e ricorsi al Tar e al consiglio di Stato, sono stati assegnati quelli per adeguare il terminal rinfuse. Per quanto riguarda la diga foranea siamo nella fase di progettazione, mentre è stata appaltata la vasca di colmata. Sono passati più di tre anni e mezzo dall’accordo romano: questa è la situazione. Difficile dire quando avranno termine.
 

Cosa sta facendo l’Autorità portuale?
Ha rilevato tutte le attrezzature e i mezzi del terminal e sta per emettere un avviso pubblico per vedere se vi è l’interesse di qualche player per l’area del terminal. Sembra però, ed è un fatto molto preoccupante, che ci sia l’intenzione di frammentare l’area offrendola a più operatori e rendendola polivalente. Sarebbe un grave errore perché significherebbe togliere al terminal sia la sua specificità sia quegli spazi indispensabili per servire oggi con efficienza le navi portacontainer. Queste navi costano al giorno 150/200 mila dollari, non possono perdere tempo, serve loro un servizio veloce e di qualità. Senza spazi, e i porti italiani lo sanno bene, questo risultato non si ottiene.
 

Cosa serve al porto di Taranto?
Un sistema di governance che, da un lato, sia in grado di portare avanti con fermezza le opere previste dal Piano regolatore portuale, assumendosi la piena responsabilità sui tempi di realizzazione, e che, dall’altro, sappia dialogare con le multinazionali e con quegli operatori esteri che controllano le merci e che possano essere interessati al nostro porto, considerandolo competitivo per il loro business. Lo scalo deve anche allargare i suoi obiettivi, andando oltre la sua funzione di transshipment, che ovviamente va salvaguardata: una volta che sarà dotato di un’infrastruttura adeguata alle esigenze del mercato e le navi torneranno a scalarlo, si dovrà puntare alla manipolazione delle merci, grazie ad attività retroportuali che diano valore aggiunto e che generino Pil per il territorio. Infatti, sono convinto che il porto di Taranto, rendendo più efficace e razionalizzando la sua corografia, si possa offrire al mercato non solo come hub di transshipment, ma anche come gateway per ulteriori commodity e servizi logistici.
 

Su cosa basa questa convinzione?
Sul fatto che il porto di Taranto, oltre a essere il porto italiano più vicino al canale di Suez, ha caratteristiche uniche nel panorama portuale italiano: ha importanti spazi retroportuali, ha adeguato la sua infrastruttura ferroviaria, grazie alla realizzazione del raccordo tra il porto e la linea ferroviaria principale che evita alle merci in partenza o in arrivo al porto di dover passare per la stazione centrale, ha fondali adeguati alle nuove navi. Certamente è indispensabile per tutto ciò cambiare registro nella gestione della portualità: possiamo pensare di divenire competitivi se non ci bastano oltre tre anni per fare una diga foranea, dei dragaggi, un adeguamento a una banchina, quando gli egiziani in dodici mesi hanno raddoppiato il canale di Suez e i marocchini in meno di tre anni hanno costruito dal nulla Tanger Med?
 
A cura della Redazione del mensile Euromerci
  
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