15/04/2014
Dopo la Nigeria, la Libia è il secondo produttore di greggio del continente africano, ma è primo in termini di riserve, e la propria sussistenza dipende quasi esclusivamente dall’export. Per il blocco di porti e campi petroliferi inevitabilmente coinvolti nei disordini politici e sociali del paese, da tempo la produzione di greggio e gas è scesa al 12,50% delle capacità, favorendo indirettamente gli altri paesi OPEC, (Organization of Petroleum Exporting Countries) di cui la Libia è membro insieme ad Algeria, Angola, Ecuador, Iran, Iraq, Kuwait, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Venezuela. L’OPEC fornisce il 40% del greggio mondiale con un sistema di produzione per quote, che mantiene il prezzo del barile attualmente intorno ai 103$. Da fonte Bloomberg, l’Opec sta producendo 30 milioni di barili al giorno che, in base alle previsioni sulla domanda mondiale, non prevede di incrementare per tutto il 2014. Allorquando la Libia riprenderà il suo forte export, l’Opec dovrà riequilibrarsi, ma nonostante gli annunci ufficiali, a tre anni dalla rivoluzione che portò alla caduta del dittatore Gheddafi, sembrerebbe che ci voglia ancora del tempo prima che essa riconduca ad un livello di confronto pacifico tutte le contraddizioni di una terra che non ha identità nazionale, lacerata da schieramenti armati contrapposti di milizie, tribù e frange integraliste, che lottano ad oltranza per istanze territoriali e regionalistiche, con il rischio, non ancora del tutto scongiurato, di diventare la Somalia del Mediterraneo.
Da quando è sorto nel 1951, dalle polveri crudeli della colonizzazione, lo stato libico non ha mai affrontato un processo istituzionale nazionale. Sia re Idris al-Sanusi prima che Muʿammar el-Gheddāfī poi, governarono attraverso un sistema di elargizioni, basato sui rapporti tribali e sui proventi dalle compagnie petrolifere, in un’economia a totale dipendenza dall’export di greggio e di gas, in cui il pubblico impiego tocca 1,2 mln di occupati (un quinto della popolazione libica). In tale contesto, il blocco dei porti libici cirenaici da nove mesi pesa fortemente sulle vicende interne e molto su quelle internazionali, essendo uno dei paesi strategici di approvvigionamento energetico dell’economia mondiale, soprattutto UE (in particolare l’Italia con l’ENI), ma anche gate principale della forte emigrazione che dall’Africa sub sahariana in cerca di lavoro si spinge sui territori nord africani o verso l’Europa. In breve, nel luglio 2013 il 33enne comandante della PFG (Petroleum Facilities Guard) degli impianti portuali di al-Sidra, Ibrahim Jathran, con una milizia 8.000 uomini armati, accusando il Governo centrale di corruzione ed appoggiato da parte della popolazione della Cirenaica, la regione libica con la maggior riserva di greggio del paese, si ammutina contro il Governo centrale, occupando militarmente 3 porti petroliferi - Zeutina, Ras Lanuf e al-Sidra dai quali si esporta circa il 50% del greggio libico (circa 700.000 barili al giorno) - ed un quarto, Hariga, attraverso alleanze. Viene nominato un Consiglio cirenaico provvisorio che chiede al Governo centrale sempre e solo lo stesso: un sistema federalista dello stato con tre regioni (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan) ed una più equa suddivisione dei proventi derivanti dall’export di greggio, gestito in monopolio dalla società di Stato NOC (National Oil Corp), anche a favore diretto dei territori produttori con il riconoscimento di una quota del 15% alla Cirenaica. Passano i mesi, ma nulla cambia; il Governo nominato dal General National Congress (GNC), il Parlamento libico, uscito dalla consultazione elettorale nel 2012, la prima dopo 48 anni, sostanzialmente spaccato tra Fronte Nazionale di Mohamed el-Magariaf e liberali di Mahmound Jibril, è debole sia politicamente che istituzionalmente.
La situazione è caotica: non c’è un apparato militare regolare (i paesi occidentali da mesi stanno collaborando al reclutamento ed addestrando delle leve); il paese è costellato di gruppi di milizie regionaliste, determinanti nella caduta di Gheddafi, che non hanno mai consegnato le armi, per continuare, con i metodi del sequestro in tutte le sue forme, le stesse rivendicazioni che avevano mosso contro il dittatore, lasciate senza risposta dal nuovo governo; non esiste un apparato di polizia mettendo le città nell’insicurezza assoluta; il Governo centrale può contare solo su milizie pro-governative: la Libya Shield formata da un network basato a Misurata, la città più occidentalizzante della Libia, e le milizie di Zentan, piuttosto indipendentiste. Quest’ultime ancora detengono il figlio maggiore di Gheddafi, Saif al-Islam, a Zeitan, la città montuosa a circa 100 km da Tripoli da cui prendono il nome, nonostante sia reclamato dal momento della sua cattura dalla magistratura della capitale e dal tribunale internazionale dei criminali di guerra. Da qualche tempo, per protesta contro il Governo centrale, hanno bloccato l’oleodotto che dal campo estrattivo di al-Wafa porta il greggio alle raffinerie per la produzione domestica, con gravi disagi ai rifornimenti di Tripoli. Per la Libia, la perdita economica secca conseguente, stimata $130 milioni al giorno, spinge ulteriormente il paese verso il caos, perché l’export petrolifero non solo è il motore dell’occupazione e del reddito delle famiglie, ma è il salvadanaio delle entrate dello Stato, ora in ginocchio. Recentemente il Governo ha dovuto forzare la Banca centrale a concedergli un prestito di emergenza di $2 mld per far fronte alle esigenze di cassa.
Il blocco dei porti cirenaici da solo ha prodotto una perdita erariale in 9 mesi di oltre $7 miliardi e fatto collassare le cisterne dei campi estrattivi, ma l’aggiunta dei disordini dilaganti nel paese che hanno interrotto le principali attività estrattive nei campi hanno fatto il resto, lasciando immuni solo 2 impianti offshore da 80.000 bpd (barili al giorno). A metà marzo scorso i ribelli armati federalisti che occupano i porti cirenaici decidono di forzare la situazione a loro favore nel porto di al-Sidra, caricando una nave bunker di greggio, l’apolide Morning Glory in quanto cancellata dal Registro di navigazione nordcoreano all’indomani dell’azione. Sotto il fuoco dell’artiglieria delle milizie pro-governative da imbarcazioni all’inseguimento, sulle quali sono sistemati camion con mitraglieri, rocambolescamente la nave riesce ad allontanarsi in acque internazionali. Il sistema dell’export libico è controllato ed autorizzato in monopolio assoluto dalla società di Stato NOC, per cui l’atto di esportazione indipendente dei ribelli deflagra violentemente nel paese ed il Congresso sfiducia, forzandolo alle dimissioni, il Primo ministro Alì Zeidan (rifugiato in Germania da cui ancora si autoproclama Primo Ministro). Nomina in sostituzione, pro-tempore con verifica ogni due settimane, il Ministro della Difesa, Abdullah al-Thinni. Una manciata di giorni e poi, su autorizzazione di Obama dietro richiesta del governo libico e cipriota, la nave viene abbordata incruentemente al largo di Cipro dal corpo militare speciale statunitense SEALs, che la consegna, in prossimità delle acque libiche, alla Marina militare di Tripoli, completa dei suoi 21 uomini di equipaggio, del suo carico di greggio e di 3 ribelli armati trovato a bordo al momento del blitz, tra i quali un fratello di Jathran. Dopo un’inchiesta, secretata, della magistratura libica, che ha visto l’arresto per molti giorni e poi il rilascio di tutte le persone trovate a bordo della nave (incluso i 3 cirenaici armati) ed il susseguirsi di dichiarazioni tra cui la rivendicazione dei ribelli di restituzione del tutto, il greggio in pancia alla tanker, 35.000 ton (240.000 barili), viene fatto scaricare presso la raffineria di Zawiya in forte crisi di produzione, per scioperi ed occupazioni nei campi petroliferi. Contemporaneamente, a poche ore dall’abbordaggio della nave, l’ONU approva la risoluzione 2146/201 che vieta l’esportazione illecita di greggio dalla Libia (cioè non autorizzata dalla società di Stato controllata dal Governo centrale, NOC), dando il via alle ispezioni in alto mare delle navi sospette ed ad un generale allertamento delle compagnie armatoriali e delle loro associazioni di categoria, tra cui Confitarma, che raccomanda estrema attenzione agli operatori italiani nell’autorizzare attracchi e fissare tanker per i porti libici. Giudicando l’esportazione decisa dai ribelli illegale ed “una minaccia alla pace, sicurezza e stabilità della Libia", l’ONU ha pesantemente scoraggiato i tentativi di implementare un commercio autonomo, privando, allo stesso tempo, i ribelli della possibilità di finanziare l’acquisto di ulteriori armi e munizioni.
La risoluzione ONU contiene anche l’esortazione a trovare soluzioni pacifiche al blocco dei porti petroliferi, coerentemente a quanto già aveva delineato la diplomazia occidentale alla conferenza “Amici di Libia" di Roma alla fine dell’anno scorso, indicando nella riconciliazione nazionale la priorità assoluta del paese. Allo scadere dell’ultimatum di due settimane che il Governo lancia ai ribelli federalisti all’indomani della fuga della Morning Glory per lo sblocco dei porti occupati, spira aria di guerra. Come per una sorta di misurazione reciproca delle forze in campo, si registrano i primi pesanti scontri intorno alla città di Ajdabiya, quartier generale di Jathran, e lungo la Red Wadi tra le milizie ribelli federaliste e l’esercito pro governativo Shield. Ma intanto il meccanismo di governo più importante in Libia, rappresentato dagli anziani delle tribù, si era già messo in moto, intermediando l’apertura di negoziati di accomodamento, grazie ai quali si è giunti ad un accordo che resta secretato. Quel che è stato diffuso è lo sblocco dei due porti più piccoli: Zeutina - a 100 km da Bengasi, con capacità export 70.000 bpd, ma nonostante per riprendere l’operatività abbia già circa 3 milioni di barili di greggio in deposito, per motivi di forza di causa maggiore (parziale presa di controllo del porto della PFG (Petroleum Facilities Guard), check up delle pipeline e scioperi a Bengasi che chiedono nuove elezioni e sicurezza) ne è ancora incerta la riapertura ravvicinata - ed Hariga, gestita dall’Arabian Gulf Oil Co (AGOCO), a cui il NOC ha dato il via libera di riapertura a breve e alcune raffinerie stanno già fissando le prime tanker per il ritiro dei carichi di greggio. Intanto, dopo la spaccatura del Consiglio della Cirenaica dei ribelli federalisti con la fuoriuscita di 8 membri su 11, che hanno accusato il leader Jathran di accentrismo, il sistema di governo locale sta già compiendo primi significativi passi verso la costituzione di un sistema federale del paese. Come diffuso dall’agenzia AP, la televisione di stato ha trasmesso i risultati della neo elezione del Consiglio degli anziani cirenaico.
A capo del Consiglio della Cirenaica, che comprende anche membri della tribù Tebu storicamente emarginata dal dittatore Gheddafi, è stato eletto Abdel-Jawad al-Badeen, attivista federalista leader della milizia Malik. Il neo eletto Consiglio della Cirenaica, che comprende la seconda città più grande della Libia, Bengasi, ha subito chiesto il referendum per il sistema federale e la restaurazione della monarchia per la stabilizzazione del paese, abolita da Gheddafi quando depose re Idris nel 1969, aggiungendo una nuova istanza politica nel paese, che finora non aveva messo in discussione il sistema democratico. E mentre i porti principali della Cirenaica al-Sidra e Ras Lanuf restano in mano dei ribelli federalisti, continuano ad aprirsi nuovi fronti di protesta nel paese, che è pieno di armi incontrollate, e nelle città per la grave situazione in cui vive la popolazione. A Tripoli il tradizionale e famoso mercato del pesce è da qualche tempo il mercato a cielo aperto delle armi e la gente dopo il tramonto evita di uscire, mentre l’aeroporto internazionale è stato abbandonato a tempo indeterminato dalle principali compagnie europee dopo il verificarsi di incendi ed attentati sulle piste. A Bengasi non sono stati risparmiati neanche gli ospedali da sparatorie ed attentati, provocando un’ondata di scioperi di protesta di tutto il personale. Intanto, nuove proteste antigovernative sono in corso a Zawiya, dove i dimostranti hanno prima chiuso le strade che conducono al porto con cumuli di sabbia e poi lo hanno direttamente bloccato, impedendo ai lavoratori del terminal di scaricare le tanker all’ormeggio piene di greggio, che sopperisce il black out del rifornimento terrestre dal campo di al-Wafa bloccato dai manifestanti di Zintan. Molte stazioni di servizio a Tripoli sono nuovamente chiuse e lunghe file di attesa per quelle rimaste aperte.
Le proteste dilaganti chiedono nuove elezioni e sicurezza, ma il Governo, a maggioranza Fratelli Mussulmani, è ostinato a non cedere, nonostante ormai il suo mandato legittimo sia scaduto da tempo. Alla chiamata elettorale dello scorso mese per l’elezione dell’Assemblea per la scrittura della Carta costituzionale del paese, si è presentato solo il 15% dell’elettorato (500.000 persone), ormai stanco di questo parlamento che più volte ha preso a pretesto la mancanza di una carta costituzionale, per non affrontare i problemi che gli venivano dalla popolazione. Anche il Primo ministro pro-tempore al-Thinni si è rifiutato di eseguire l’incarico ricevuto pochi giorni fa dal GNC di formare un nuovo gabinetto di governo. Come diffuso da Al Jeezera, in una lettera, al-Thinni spiega le ragioni del suo rifiuto ad accettare l’estensione del proprio mandato, motivandole con le minacce ricevute dalla sua famiglia e per non voler essere responsabile della violenza che attraversa tutto il paese. Auspicandosi che il Parlamento nomini presto un nuovo incarico, resta intanto al proprio posto ad interim.
di Giovanna Visco
Da quando è sorto nel 1951, dalle polveri crudeli della colonizzazione, lo stato libico non ha mai affrontato un processo istituzionale nazionale. Sia re Idris al-Sanusi prima che Muʿammar el-Gheddāfī poi, governarono attraverso un sistema di elargizioni, basato sui rapporti tribali e sui proventi dalle compagnie petrolifere, in un’economia a totale dipendenza dall’export di greggio e di gas, in cui il pubblico impiego tocca 1,2 mln di occupati (un quinto della popolazione libica). In tale contesto, il blocco dei porti libici cirenaici da nove mesi pesa fortemente sulle vicende interne e molto su quelle internazionali, essendo uno dei paesi strategici di approvvigionamento energetico dell’economia mondiale, soprattutto UE (in particolare l’Italia con l’ENI), ma anche gate principale della forte emigrazione che dall’Africa sub sahariana in cerca di lavoro si spinge sui territori nord africani o verso l’Europa. In breve, nel luglio 2013 il 33enne comandante della PFG (Petroleum Facilities Guard) degli impianti portuali di al-Sidra, Ibrahim Jathran, con una milizia 8.000 uomini armati, accusando il Governo centrale di corruzione ed appoggiato da parte della popolazione della Cirenaica, la regione libica con la maggior riserva di greggio del paese, si ammutina contro il Governo centrale, occupando militarmente 3 porti petroliferi - Zeutina, Ras Lanuf e al-Sidra dai quali si esporta circa il 50% del greggio libico (circa 700.000 barili al giorno) - ed un quarto, Hariga, attraverso alleanze. Viene nominato un Consiglio cirenaico provvisorio che chiede al Governo centrale sempre e solo lo stesso: un sistema federalista dello stato con tre regioni (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan) ed una più equa suddivisione dei proventi derivanti dall’export di greggio, gestito in monopolio dalla società di Stato NOC (National Oil Corp), anche a favore diretto dei territori produttori con il riconoscimento di una quota del 15% alla Cirenaica. Passano i mesi, ma nulla cambia; il Governo nominato dal General National Congress (GNC), il Parlamento libico, uscito dalla consultazione elettorale nel 2012, la prima dopo 48 anni, sostanzialmente spaccato tra Fronte Nazionale di Mohamed el-Magariaf e liberali di Mahmound Jibril, è debole sia politicamente che istituzionalmente.
La situazione è caotica: non c’è un apparato militare regolare (i paesi occidentali da mesi stanno collaborando al reclutamento ed addestrando delle leve); il paese è costellato di gruppi di milizie regionaliste, determinanti nella caduta di Gheddafi, che non hanno mai consegnato le armi, per continuare, con i metodi del sequestro in tutte le sue forme, le stesse rivendicazioni che avevano mosso contro il dittatore, lasciate senza risposta dal nuovo governo; non esiste un apparato di polizia mettendo le città nell’insicurezza assoluta; il Governo centrale può contare solo su milizie pro-governative: la Libya Shield formata da un network basato a Misurata, la città più occidentalizzante della Libia, e le milizie di Zentan, piuttosto indipendentiste. Quest’ultime ancora detengono il figlio maggiore di Gheddafi, Saif al-Islam, a Zeitan, la città montuosa a circa 100 km da Tripoli da cui prendono il nome, nonostante sia reclamato dal momento della sua cattura dalla magistratura della capitale e dal tribunale internazionale dei criminali di guerra. Da qualche tempo, per protesta contro il Governo centrale, hanno bloccato l’oleodotto che dal campo estrattivo di al-Wafa porta il greggio alle raffinerie per la produzione domestica, con gravi disagi ai rifornimenti di Tripoli. Per la Libia, la perdita economica secca conseguente, stimata $130 milioni al giorno, spinge ulteriormente il paese verso il caos, perché l’export petrolifero non solo è il motore dell’occupazione e del reddito delle famiglie, ma è il salvadanaio delle entrate dello Stato, ora in ginocchio. Recentemente il Governo ha dovuto forzare la Banca centrale a concedergli un prestito di emergenza di $2 mld per far fronte alle esigenze di cassa.
Il blocco dei porti cirenaici da solo ha prodotto una perdita erariale in 9 mesi di oltre $7 miliardi e fatto collassare le cisterne dei campi estrattivi, ma l’aggiunta dei disordini dilaganti nel paese che hanno interrotto le principali attività estrattive nei campi hanno fatto il resto, lasciando immuni solo 2 impianti offshore da 80.000 bpd (barili al giorno). A metà marzo scorso i ribelli armati federalisti che occupano i porti cirenaici decidono di forzare la situazione a loro favore nel porto di al-Sidra, caricando una nave bunker di greggio, l’apolide Morning Glory in quanto cancellata dal Registro di navigazione nordcoreano all’indomani dell’azione. Sotto il fuoco dell’artiglieria delle milizie pro-governative da imbarcazioni all’inseguimento, sulle quali sono sistemati camion con mitraglieri, rocambolescamente la nave riesce ad allontanarsi in acque internazionali. Il sistema dell’export libico è controllato ed autorizzato in monopolio assoluto dalla società di Stato NOC, per cui l’atto di esportazione indipendente dei ribelli deflagra violentemente nel paese ed il Congresso sfiducia, forzandolo alle dimissioni, il Primo ministro Alì Zeidan (rifugiato in Germania da cui ancora si autoproclama Primo Ministro). Nomina in sostituzione, pro-tempore con verifica ogni due settimane, il Ministro della Difesa, Abdullah al-Thinni. Una manciata di giorni e poi, su autorizzazione di Obama dietro richiesta del governo libico e cipriota, la nave viene abbordata incruentemente al largo di Cipro dal corpo militare speciale statunitense SEALs, che la consegna, in prossimità delle acque libiche, alla Marina militare di Tripoli, completa dei suoi 21 uomini di equipaggio, del suo carico di greggio e di 3 ribelli armati trovato a bordo al momento del blitz, tra i quali un fratello di Jathran. Dopo un’inchiesta, secretata, della magistratura libica, che ha visto l’arresto per molti giorni e poi il rilascio di tutte le persone trovate a bordo della nave (incluso i 3 cirenaici armati) ed il susseguirsi di dichiarazioni tra cui la rivendicazione dei ribelli di restituzione del tutto, il greggio in pancia alla tanker, 35.000 ton (240.000 barili), viene fatto scaricare presso la raffineria di Zawiya in forte crisi di produzione, per scioperi ed occupazioni nei campi petroliferi. Contemporaneamente, a poche ore dall’abbordaggio della nave, l’ONU approva la risoluzione 2146/201 che vieta l’esportazione illecita di greggio dalla Libia (cioè non autorizzata dalla società di Stato controllata dal Governo centrale, NOC), dando il via alle ispezioni in alto mare delle navi sospette ed ad un generale allertamento delle compagnie armatoriali e delle loro associazioni di categoria, tra cui Confitarma, che raccomanda estrema attenzione agli operatori italiani nell’autorizzare attracchi e fissare tanker per i porti libici. Giudicando l’esportazione decisa dai ribelli illegale ed “una minaccia alla pace, sicurezza e stabilità della Libia", l’ONU ha pesantemente scoraggiato i tentativi di implementare un commercio autonomo, privando, allo stesso tempo, i ribelli della possibilità di finanziare l’acquisto di ulteriori armi e munizioni.
La risoluzione ONU contiene anche l’esortazione a trovare soluzioni pacifiche al blocco dei porti petroliferi, coerentemente a quanto già aveva delineato la diplomazia occidentale alla conferenza “Amici di Libia" di Roma alla fine dell’anno scorso, indicando nella riconciliazione nazionale la priorità assoluta del paese. Allo scadere dell’ultimatum di due settimane che il Governo lancia ai ribelli federalisti all’indomani della fuga della Morning Glory per lo sblocco dei porti occupati, spira aria di guerra. Come per una sorta di misurazione reciproca delle forze in campo, si registrano i primi pesanti scontri intorno alla città di Ajdabiya, quartier generale di Jathran, e lungo la Red Wadi tra le milizie ribelli federaliste e l’esercito pro governativo Shield. Ma intanto il meccanismo di governo più importante in Libia, rappresentato dagli anziani delle tribù, si era già messo in moto, intermediando l’apertura di negoziati di accomodamento, grazie ai quali si è giunti ad un accordo che resta secretato. Quel che è stato diffuso è lo sblocco dei due porti più piccoli: Zeutina - a 100 km da Bengasi, con capacità export 70.000 bpd, ma nonostante per riprendere l’operatività abbia già circa 3 milioni di barili di greggio in deposito, per motivi di forza di causa maggiore (parziale presa di controllo del porto della PFG (Petroleum Facilities Guard), check up delle pipeline e scioperi a Bengasi che chiedono nuove elezioni e sicurezza) ne è ancora incerta la riapertura ravvicinata - ed Hariga, gestita dall’Arabian Gulf Oil Co (AGOCO), a cui il NOC ha dato il via libera di riapertura a breve e alcune raffinerie stanno già fissando le prime tanker per il ritiro dei carichi di greggio. Intanto, dopo la spaccatura del Consiglio della Cirenaica dei ribelli federalisti con la fuoriuscita di 8 membri su 11, che hanno accusato il leader Jathran di accentrismo, il sistema di governo locale sta già compiendo primi significativi passi verso la costituzione di un sistema federale del paese. Come diffuso dall’agenzia AP, la televisione di stato ha trasmesso i risultati della neo elezione del Consiglio degli anziani cirenaico.
A capo del Consiglio della Cirenaica, che comprende anche membri della tribù Tebu storicamente emarginata dal dittatore Gheddafi, è stato eletto Abdel-Jawad al-Badeen, attivista federalista leader della milizia Malik. Il neo eletto Consiglio della Cirenaica, che comprende la seconda città più grande della Libia, Bengasi, ha subito chiesto il referendum per il sistema federale e la restaurazione della monarchia per la stabilizzazione del paese, abolita da Gheddafi quando depose re Idris nel 1969, aggiungendo una nuova istanza politica nel paese, che finora non aveva messo in discussione il sistema democratico. E mentre i porti principali della Cirenaica al-Sidra e Ras Lanuf restano in mano dei ribelli federalisti, continuano ad aprirsi nuovi fronti di protesta nel paese, che è pieno di armi incontrollate, e nelle città per la grave situazione in cui vive la popolazione. A Tripoli il tradizionale e famoso mercato del pesce è da qualche tempo il mercato a cielo aperto delle armi e la gente dopo il tramonto evita di uscire, mentre l’aeroporto internazionale è stato abbandonato a tempo indeterminato dalle principali compagnie europee dopo il verificarsi di incendi ed attentati sulle piste. A Bengasi non sono stati risparmiati neanche gli ospedali da sparatorie ed attentati, provocando un’ondata di scioperi di protesta di tutto il personale. Intanto, nuove proteste antigovernative sono in corso a Zawiya, dove i dimostranti hanno prima chiuso le strade che conducono al porto con cumuli di sabbia e poi lo hanno direttamente bloccato, impedendo ai lavoratori del terminal di scaricare le tanker all’ormeggio piene di greggio, che sopperisce il black out del rifornimento terrestre dal campo di al-Wafa bloccato dai manifestanti di Zintan. Molte stazioni di servizio a Tripoli sono nuovamente chiuse e lunghe file di attesa per quelle rimaste aperte.
Le proteste dilaganti chiedono nuove elezioni e sicurezza, ma il Governo, a maggioranza Fratelli Mussulmani, è ostinato a non cedere, nonostante ormai il suo mandato legittimo sia scaduto da tempo. Alla chiamata elettorale dello scorso mese per l’elezione dell’Assemblea per la scrittura della Carta costituzionale del paese, si è presentato solo il 15% dell’elettorato (500.000 persone), ormai stanco di questo parlamento che più volte ha preso a pretesto la mancanza di una carta costituzionale, per non affrontare i problemi che gli venivano dalla popolazione. Anche il Primo ministro pro-tempore al-Thinni si è rifiutato di eseguire l’incarico ricevuto pochi giorni fa dal GNC di formare un nuovo gabinetto di governo. Come diffuso da Al Jeezera, in una lettera, al-Thinni spiega le ragioni del suo rifiuto ad accettare l’estensione del proprio mandato, motivandole con le minacce ricevute dalla sua famiglia e per non voler essere responsabile della violenza che attraversa tutto il paese. Auspicandosi che il Parlamento nomini presto un nuovo incarico, resta intanto al proprio posto ad interim.
di Giovanna Visco
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