23/07/2012

CONCLUSO LO STUDIO ISFORT SUL LAVORO NEI PORTI ITALIANI

Pochi giorni fa a Roma l’Osservatorio Nazionale sul Trasporto Merci e Logistica di Isfort ha presentato i risultati di ricerca sul campo sull’organizzazione del lavoro in porto, che completano l’analisi introdotta l’anno scorso, intitolata provocatoriamente "Far West Italia il futuro dei porti e del lavoro portuale". Sviluppato sui porti di Genova, Napoli Gioia Tauro Ravenna e Trieste nel 2011 e di La Spezia, Livorno, Palermo, Bari, Venezia quest’anno, con il supporto delle tre sigle sindacali Filt CGIL, FIT-Cisl, Uiltrasporti, il rapporto, per la prima e unica volta in Italia, affronta il tema del lavoro portuale, che non era stato rappresentato neanche nello studio europeo di Theo Notteboom per ESPO nel 2010 sui modelli di organizzazione del lavoro nei principali porti europei. Dall’analisi di profondità porto per porto emerge sostanzialmente un quadro molto variegato, che mette in luce quanto la traduzione a livello locale della legge nazionale dei porti (L.84/94) abbia dato vita a modelli organizzativi del lavoro diversi da porto a porto. Secondo lo studio, la causa principale di tali differenze sembra essere ispirata dal “peso delle lobby locali e dalla forza degli attori in campo, piuttosto che dalla necessità di adeguare il flusso delle operazioni alle caratteristiche funzionali e strutturali di ciascun porto", unito ad una forte disattenzione dell’amministrazione centrale e dei Governi sulla centralità strategica della risorsa portuale. Il necessario passaggio della portualità italiana dal monopolio pubblico delle operazioni portuali alla libera competizione tra privati sotto la spinta dei mutamenti e delle accelerazioni dell’economia reale nazionale e della logistica internazionale scaturita dalla crescita esponenziale del container, ha avuto due velocità: una più lenta di ristrutturazione dell’organizzazione e di governance dei porti, l’altra repentina e determinata di cambiamento della mission dei porti, con una forte crescita dei traffici commerciali di manufatti e merci varie (da meno 40 mil del 1990 a più di 90 mil nel 2001), di contenitori (da 2 mil nel 1991 a 10 mil ante crisi), e una conseguente forte riduzione del peso relativo delle rinfuse petrolifere (dal 56% del 1991 a l 39% del 2009). Nel 1983 gli addetti alle banchine erano 21.000, 4000 nel 1997, ma nel 2009 tra art 16 , 17 e 18, Assoporti ne ha censito 20.000 unità. Tra le principali differenze registrate, ad esempio, risultano porti come Bari e Palermo in cui non esistono imprese terminaliste (art 18), altri come Gioia Tauro dove non c’è il pool di manodopera temporanea (art 17), altri ancora con un forte sviluppo delle imprese di appalto di servizi (art 16). Ciononostante, lo studio accerta anche che il lavoro temporaneo è un elemento imprescindibile dalle attività portuali, per loro natura altamente flessibili e poco programmabili, nonostante iI segmento dei container abbia un più elevato livello di programmabilità e di automazione delle attività in banchina, gestito in terminal controllati da grandi operatori mondiali. Infatti, in questo comparto portuale gli addetti delle imprese terminalistiche sono i più numerosi, con dimensione media di organico variabile dai 32 di Venezia ai 140 di Genova, ma togliendo dalla statistica i terminal contenitori, l’organico medio si abbassa fino a 13 addetti a Napoli e 15 a Ravenna. Anche l’appalto dei servizi, affidamento a terzi di parti del ciclo produttivo, presenta caratteristiche diverse da uno scalo all’altro, prodotte dai diversi interventi di regolamentazione della AP, in alcuni porti più decisa nella gestione del lavoro all’interno dello scalo. In generale nei 10 porti analizzati la quota di lavori appaltati oscilla tra il 30 ed il 40% con punte del 50% a Trieste, La Spezia e Venezia. Per quanto riguarda invece le banchine pubbliche, esse sono poche e poco utilizzate. A Genova sono del tutto assenti, mentre a Ravenna vi transita il 6-7% del traffico, a Gioia Tauro 1-2%, a Napoli meno del 10%. Dall’indice di frequenza del ricorso al lavoro temporaneo, ricavato dal rapporto tra lavoro strutturato e quello temporaneo, Ravenna, Palermo, e Genova presentano gli indici più bassi (rispettivamente 1,4 – 1,8 – 2,2), evidenziando una centralità del pool non riconducibile esclusivamente ai picchi di domanda ma “ad un inserimento stabile e continuativo dell’art 17 nei cicli produttivi dei terminalisti". In generale, dall’indagine risulta che laddove è presente l’art 17 il ricorso all’appalto di servizi è meno frequente con conseguenti operazioni meno frammentate e meno incidenti. Lo studio considera il porto uno snodo fondamentale non tanto in quanto piattaforma logistica mediterranea, ma per il rilancio economico e produttivo del Paese. È tra la dimensione privata e quella pubblica del porto che quindi colloca il pool del lavoro temporaneo, perché dalla promulgazione della 84 94 non è ancora chiaro se questo servizio, definito esclusivo dalla legge, appartenga a una o all’altra dimensione. Infatti, sebbene le imprese derivanti dalle ex compagnie portuali sono società/cooperative di diritto privato, sono percepite ancora come istituzioni pubbliche, trovando anche un riscontro pratico nella gestione delle giornate di mancato avviamento dei lavoratori temporanei. Sotto il peso del calo dei traffici causato dalla crisi economica, questa ambiguità ora richiede di essere risolta, con un riferimento regolamentare e operativo trasparente e omogeneo in tutti i porti, trovando soluzioni di mercato che salvaguardino sia la dignità del lavoratore che la sostenibilità economica. Giovanna Visco
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