24/11/2014
Da un documento cinese riservato della Commissione Nazionale per la Salute e la Pianificazione Nazionale, per la cui diffusione la giornalista Gao Yu sta subendo un processo a porte chiuse, la crescita continua del flusso migratorio interno verso le grandi città, a fine 2013, ha raggiunto quota 245 milioni di persone, pari ad un 1/6 della popolazione totale. Dopo le terribili immagini che hanno fatto il giro del mondo sull’inquinamento atmosferico delle megalopoli cinesi, che nel 2010 secondo The Lancet ha determinato la morte prematura di circa 1,2 milioni di persone, si diffonde l’evidenza di una nuova emergenza ambientale, costituita dal dilagante inquinamento delle acque cinesi. Da un recente report del Ministero della Protezione Ambientale, rimbalzato da Bloomberg Businessweek, nel 2013 le autorità cinesi hanno dichiarato troppo contaminati per la coltivazione circa 33.000 km2 di terreni agricoli. Un dato ancor più inquietante, se vi si aggiunge che ciò che inquina la terra contamina irreversibilmente il sistema idrologico sotterraneo e di superficie. Infatti, dallo stesso report, sono già 300 su un totale 657 le grandi città cinesi che si trovano al di sotto degli standard minimi di disponibilità annua di acqua stabiliti dall’ONU, fissati a 1000mc pro-capite. Città come Tianjin e le aree urbanizzate di intere province come quella di Hebei, nel Nord della Cina orienale, dispongono di appena 286mc pro capite di acqua all’anno; mentre, secondo la studiosa australiana Lara Marie Djurovic (www.leparoleelecose.it), nella capitale Pechino le falde acquifere scendono vertiginosamente di un metro all’anno, spingendo ad eccessive trivellazioni che stanno causando cedimenti del terreno in tutta la regione. La studiosa prevede che Shangai, oggi con una disponibilità di circa 16 milioni di tonnellate di acqua al giorno per 26 milioni di persone, tra sette anni, con 30 milioni di abitanti e un fabbisogno giornaliero di 18 milioni di tonnellate di acqua, andrà in crisi idrica.
Intanto, continuano copiosi nei fiumi i riversamenti delle acque di scarico industriali, contaminando di sostanze cancerogene, tra cui il benzene, bacini e fiumi, come il Delta dello Yangtze (Fiume Azzurro) e inquinando già 17 dei 31 grandi laghi cinesi (dato del Ministero della protezione ambientale). La conseguenza è che più della metà della popolazione, 700 milioni di cinesi, non ha accesso diretto a questo bene di prima necessità.
Negli ultimi trenta anni, mentre il mondo occidentale cavalcava la crescita economica a due cifre di questo paese, la distruzione delle falde acquifere, la desertificazione di ¼ dei territori agricoli e la deforestazione sfrenata non hanno mai trovato un’inversione di tendenza. Ancora oggi, tra le mille complessità di un’economia di Stato che passa ad una di mercato, il paese con la più grande popolazione del mondo (1,3 miliardi di persone) ha un apparato pubblico di controllo ambientale di un ventesimo rispetto a quello nordamericano che ha una popolazione quattro volte inferiore. L’eminente studioso Vaclav Smil ha calcolato l’inquinamento della Cina in un costo corrente di almeno 15% del suo PIL e prevede la crescita di tale costo nei prossimi decenni.
Ma le conseguenze ambientali di tale devastazione non sono solo interne.
E’ sotto gli occhi di chiunque li voglia aprire, l’emergenza alimentare cinese, che dopo aver fatto impoverire i territori dei paesi vicini asiatici spingendoli a selvaggi metodi di coltivazione e a produzioni industriali a bassa tecnologia fortemente inquinanti e alta intensità di manodopera, è diventato il principale partner commerciale del Brasile. Oggi il governo brasiliano permette il soddisfacimento dell’immensa voracità cinese di soia, carne di manzo, ferro e legname con la deforestazione della Amazzonia, continuando ad abbassare i paletti restrittivi di protezione e conservazione ambientale del principale polmone del pianeta e delle sue innumerevoli biodiversità. C’è da chiedersi cosa accadrà, specialmente nelle aree africane e anche balcaniche, oltre che asiatiche e sudamericane, dove si strutturano ingenti investimenti economici cinesi in infrastrutture e risorse naturali, quando la madrepatria sarà messa alle strette dalla penuria interna di acqua.
Attanagliata dallo smog, dal 2011 la Cina sta tentando di fissare obiettivi di cosiddetta sostenibilità. Da gennaio prossimo parte il divieto di importazione e vendita sul mercato domestico di carbone ad alta percentuale di ceneri e solfuri, che si ripercuoterà sull’export di carbone metallurgico australiano, che ha proprio quelle caratteristiche. Il carbone è il principale responsabile di inquinamento atmosferico globale (per oltre l’80%) e la Cina, seguita dagli USA, ne è il principale consumatore del mondo.
Già nel 2008, in occasione delle Olimpiadi, la Cina diminuì unilateralmente in modo concreto le emissioni di CO2 con il rallentamento della produzione industriale interna, incidendo sul sistema del trade internazionale collegato direttamente a quello finanziario, e il mondo poco dopo entrò nel baratro della crisi globale.
Più recentemente a margine del vertice APEC, USA e Cina hanno stretto per la prima volta un impegno congiunto, siglato da Obama e Xi Jinping, per abbattere entro il 2030 i livelli di utilizzo energetico del carbone.
L’UE, che dopo USA e Cina è la terza principale responsabile dell’inquinamento atmosferico mondiale, è invece impegnata a ridurre entro il 2030 del 40% l’emissione di CO2, incrementando le rinnovabili, migliorando l’efficienza delle reti e le interconnessioni di mercato interno. Ora tutti guardano al COP21 sul clima del 2015 a Parigi, che dovrebbe segnare una tappa decisiva per impegnare tutti i paesi in un accordo costrittivo universale sul clima, introducendo elementi innovativi di cambiamento di mentalità da un’impostazione di “condivisione del fardello" ad una di “opportunità", in termini di creazione di ricchezza, occupazione e di nuovi modelli di produzione e consumo.
“It is time to move to action" (E’ tempo di agire) è il monito del Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e del Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.
L’inquinamento rovina la salute alla popolazione, rallenta la fotosintesi clorofilliana e limita la crescita industriale ed economica dei territori, è causa di destabilizzazione sociale e di conflitti. Ma per stare con i piedi a terra, in un mondo in cui mentre ci si abbaglia con ammiccanti vetrine di ogni tipo, nella strada vicina come in molte vaste aree geografiche la vita delle persone ha valore zero, l’unica speranza è che diventi estremamente chiaro che la questione ambientale è principalmente economica. Inquinare è molto vantaggioso per le speculazioni finanziarie di breve e medio periodo, ma è fortemente antieconomico per gli Stati sovrani nel lungo periodo.
di Giovanna Visco
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