20/10/2014

Autotrasporto, la Corte di Giustizia ristabilisce l’equilibrio tra vettori e committenza

Il 4 di settembre 2014, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pronunziato la sentenza a chiusura di varie cause promosse in materia di compatibilità della disciplina interna dei cosiddetti «costi minimi» con il diritto comunitario. Il tema ha acquisito una certa notorietà nell’ambito dell’autotrasporto perché, in sostanza, il d.l. n. 112/2008 prevedeva che un organismo comunque di natura pubblicistica (prima l’Osservatorio, poi il Ministero) stabilisse un importo in denaro, per chilometro percorso, che andasse a coprire i costi di gestione dell’impresa di autotrasporto. Specificamente, l’art. 83-bis prevedeva che il vettore, attraverso una spe-ciale procedura che importava anche l’emissione di una fattura, potesse dunque chiedere alla committenza la differenza tra quanto percepito a titolo di corrispettivo e quanto risultante dai costi minimi. La ragione sottesa a questa disciplina era la necessità di assicurare sia alle imprese di trasporto un livello minimo di entrata per coprire i costi di gestione che un adeguato livello di sicurezza. Ovviamente, la normativa in parola ha incontrato una certa opposizione da parte della committenza, che non ha tardato ad intraprendere varie azioni per cercare di ridurne l’impatto. 
La causa nella quale è stata emessa la sentenza nasceva, appunto, da una domanda di pronunzia pregiudiziale proposta dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio il 12 aprile 2013 nella causa che vedeva l’API impugnare opposta al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Così, il TAR chiedeva alla Corte: − se la tutela della libertà di concorrenza, della libera circolazione delle imprese, della libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi (di cui agli artt. 4 (3) TUE, 101 TFUE, 49, 56 e 96 TFUE) sia compatibile, ed in che misura, con disposizioni nazionali degli Stati membri dell’Unione prescrittive di costi minimi di esercizio nel settore dell’autotrasporto, implicanti fissazione eteronoma di un elemento costitutivo del corrispettivo del servizio e, quindi, del prezzo contrattuale; 
− se, ed a quali condizioni, limitazioni dei principi citati siano giustificabili in relazione ad esigenze di salvaguardia dell’interesse pubblico alla sicu-rezza della circolazione stradale e se, in detta prospettiva funzionale, possa trovare collocazione la fissazione di costi minimi di esercizio secondo quanto previsto dalla disciplina di cui all’art. 83-bis del d.l. n. 112/2008 e successive modificazioni ed integrazioni; 
− se la determinazione dei costi minimi di esercizio, nell’ottica menzionata, possa poi essere rimessa ad accordi volontari delle categorie di operatori interessate e, in subordine, ad organismi la cui composizione è caratterizza-ta da una forte presenza di soggetti rappresentativi degli operatori economici privati di settore, in assenza di criteri predeterminati a livello legislativo. 
Su questi punti fondamentali si è articolata la pronunzia della Corte di Giustizia e, in particolare, sul fatto che per un certo periodo di tempo (in realtà, pochi mesi) i costi minimi per la sicurezza fossero stati determinati da un Osservatorio facente parte della Consulta degli autotrasportatori e, quindi, da soggetti che avevano un evidente interesse nella quantificazione dei costi stessi. La Corte, sulla base di ciò, ha dunque ritenuto incompatibile con il diritto comunitario la normativa nazionale che consentiva tale violazione del principio di concorrenza in cui erano le stesse imprese di autotrasporto a determinare quelle che, implicitamente, venivano qualificate come tariffe minime. A una prima lettura la sentenza non è decisiva, ma si presenta come interlocutoria. Infatti, la decisione riguarda espressamente soltanto la incompatibilità con il diritto comunitario del meccanismo dei costi minimi come disciplinato prima del 2012, ovvero quanto i prezzi erano decisi dall’Osservatorio (cfr. il punto n. 58) che, appunto, non esiste più dall’agosto del 2012 . Si tratta, in buona sostanza, di una sentenza che ritiene illegittimo un meccanismo non più attuale in quanto oggi i prezzi vengono stabiliti dal Ministero dei Trasporti. 
C’è da dire che i punti 55-57 sono molto tranchant, anche se si tratta di quello che, in gergo tecnico, viene chiamato un obiter dictum, e cioè un’affermazione inciden-tale alla quale non viene conferito il rango di decisione ma che, comunque, assurge a una notevole importanza sistematica. La Corte, infatti, afferma che: 
− i provvedimenti in esame vanno al di là del necessario. Da un lato, non permettono al vettore di provare che esso, nonostante offra prezzi inferiori alle tariffe minime stabilite, si conformi pienamente alle disposizioni vigenti in materia di sicurezza. 
− Dall’altro, esistono moltissime norme, comprese quelle del diritto dell’Unione, menzionate al punto 7 della presente sentenza, riguardanti specificamente la sicurezza stradale, che costituiscono misure più efficaci e meno restrittive, come le norme dell’Unione in materia di durata massima settimanale del lavoro, pause, riposi, lavoro notturno e controllo tecnico degli autoveicoli. La stretta osservanza di tali norme può garantire effettivamente il livello di sicurezza stradale adeguato. 
− Ne consegue che la determinazione dei costi minimi d’esercizio non può essere giustificata da un obiettivo legittimo. Insomma, già a leggere queste poche righe sembra che il destino dei costi minimi sia segnato anche per quelle tabelle la cui determinazione è stata definita non dall’Osservatorio, ma direttamente dal Ministero. 
Tuttavia, è opportuno ricordare che, in relazione alle cosiddette «tariffe a forcella», fu ritenuta la compatibilità con il diritto comunitario sulla base della constatazione che i limiti posti dal legislatore nazionale all’autonomia negoziale delle parti erano ammissibili alla luce del prevalente interesse generale alla tutela della sicurezza stradale. La disciplina, nell’occasione, era stata ritenuta congrua ed appropriata a tale funzione, anche grazie alla natura super partes dell’organismo pubblico chiamato a dare concreta attuazione a quella normativa (allora il Comitato Centrale dell’Albo, oggi il Ministero dei Trasporti) . Del resto su queste coordinate si era mossa la stessa Corte di Giustizia, laddove aveva affermato che una limitazione al principio di libera prestazione dei servizi professionali può essere consentita allorché sussistano ragioni imperative di inte-resse pubblico. 
Quali sono dunque ora le conseguenze della sentenza? Stando al meccanismo della disapplicazione del diritto italiano per incompatibilità con il diritto comunitario, ed in base alle regole del rinvio pregiudiziale, il TAR del Lazio non potrà più ritenere compatibile con il diritto comunitario l’art. 83-bis, almeno nella parte in cui preve-de che i costi minimi siano determinati dall’Osservatorio. 
È peraltro vero che l’effetto della norma “incriminata" si è già esaurito col venire meno dell’Osservatorio, e che i suoi effetti si potrebbero definire ormai cristallizzati e non suscettibili di modificazione. Tuttavia, il Giudice nazionale potrebbe spingersi anche oltre: sulla base dell’obiter dictum di cui si è detto in precedenza, potrebbe affermare che l’intero sistema dei costi minimi è contrastante con il diritto comunitario e che, pertanto, tutte le domande giudiziali volte a richiedere le differenze con il corrispettivo sono infondate. Secondo tale orientamento restrittivo, le cause pendenti aventi ad oggetto differen-ziali richiesti per prestazioni antecedenti l’agosto del 2012 dovrebbero essere ritenute prive di fondamento, giacché il giudice dovrebbe immediatamente applicare lo ius superveniens. Questo perché il Giudice nazionale deve valutare – ciò che può fare anche senza ricorrere alla Corte di Giustizia – la compatibilità del diritto interno con il diritto comunitario e, quindi, potrebbe ritenere incompatibile con il principio della libera concorrenza anche la determinazione di costi minimi da parte del Ministero. Naturalmente, questa è una valutazione che è rimessa all’autorità giudiziaria e che necessita anche di una ponderazione degli interessi in gioco, compresi anche il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., oltre allo stesso diritto alla libertà di impresa dato che l’eliminazione dei costi minimi favorirà indubbiamente la concentrazione delle imprese. Rimarrebbero, in ogni caso, da valutare le sorti di quegli imprenditori che hanno, in ossequio alla normativa oggi contestata, emesso fatture e versato l’Iva su somme che, se passasse l’orientamento più restrittivo, non avrebbero più la possibilità di rivendicare. A riguardo, è però da ritenere che non sia possibile configurare forme di responsabilità dello Stato per la sopravvenuta incompatibilità della legge italiana con il diritto comunitario. 
Questo, sia perché vi erano precedenti contrari da parte della stessa Corte, sia perché altro è omettere di dare attuazione ad obblighi internazionali (ciò che nel caso delle direttive determina effettivamente responsabilità dello Stato) ed altro è esercitare la fondamentale funzione giurisdizionale. Non si ravvisano, insomma, i tre requisiti fondamentali per la configurazione del diritto al risarcimento per violazione del diritto comunitario. 

di Michele Bricchi e Fernando Figoni
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